Lo stato dei microbirrifici italiani
03/05/2024

Il settore della birra, e in particolare quella artigianale, è in crisi? In diversi paesi europei, non solamente in Italia, organi di stampa e gruppi economici lamentano tempi difficili e le recenti notizie riguardanti chiusure di noti produttori italiani hanno promosso il dibattito sullo stato e sulle prospettive dei birrifici nel nostro paese. L’impatto della pandemia è stato molto pesante, in particolare nel 2020, con le limitazioni dei pubblici esercizi e i diversi lockdown: il consumo della birra in Italia ha avuto un calo drastico di quasi il 20 per cento rispetto all’anno precedente e dopo anni di aumento della diffusione del prodotto birra tra gli italiani, il dato del consumo pro-capite è ritornato ai livelli del 2016. Ma, come per ogni settore, le medie nascondono i dettagli: è stato ampiamente raccontato come – nei periodi di lockdown – la grande distribuzione fosse la principale fonte di approvvigionamento di prodotti alimentari e di bevande degli italiani e che i birrifici artigianali fossero quasi assenti nel canale distributivo della GDO. I numeri citati dal rapporto annuale Assobirra ci dicono che i 2,3 milioni di hl bevuti in meno dagli italiani nel 2020 hanno avuto maggiori ripercussioni su alcune aziende e meno su altre e, anzi, qualche gruppo industriale ha mantenuto inalterate le quote di vendita, se non addirittura aumentate. Il 2021 ha testimoniato, fortunatamente, l’atteso rimbalzo verso l’alto, riportando il consumo pro-capite a livelli superiori al dato record del 2019. Ma quando tutto sembrava volgere al meglio, le vicende belliche ucraine e le problematiche degli approvvigionamenti energetici e di materie prime hanno dato un'ulteriore mazzata alle aziende del settore. I dati aggregati complessivi relativi al 2023 non sono ancora disponibili, ma qualche elemento numerico può essere commentato.

Il Regno Unito
In dicembre 2022 ha fatto molto discutere, tra appassionati e addetti ai lavori, il grido di allarme lanciato da un noto publican inglese in merito alle recenti chiusure dei produttori della terra d’Albione, in particolare nomi ben noti tra gli appassionati, come Exe Valley, Wild Beer Co., Kelham Island (poi rilevato da Thornbridge), Wychwood. In totale, nel post pubblicato sui social venivano citati numerosi birrifici che avevano in qualche modo interrotto la produzione, tra chiusure, amministrazioni concordate e fallimenti. Apocalisse birraria causata da pandemia, crisi energetica e Brexit? Forse, a leggere meglio i numeri, le cose erano sono così drammatiche: il ben informato sito quaffale.org, l’equivalente britannico del nostrano microbirrifici.org, riporta freddamente i numeri dei birrifici attivi, delle nuove chiusure e aperture nel Regno Unito e i dati pubblicati smentirebbero il de profundis. Innanzitutto, i dati complessivi: in Gran Bretagna sarebbero attivi poco meno di 2000 birrifici e le chiusure nel 2023 corrisponderebbero all’incirca al 3% del settore, quindi non esattamente una tabula rasa. Inoltre, le chiusure (Quaffale ne riporta 127 per il 2022 e 50 per il 2023, ma il concetto non cambia) non sarebbero certo una novità per il settore, rappresentando un fisiologico ricambio di aziende a fronte di altrettante nuove aperture (95 nel 2022 e 41 nel 2023). In particolare, poi, il 2022 non può certo essere considerato annus horribilis per i birrifici britannici, visto che nel 2018 e 2019 le chiusure furono rispettivamente di 162 e 167 unità, sempre controbilanciate da nuove aperture. Insomma, complessivamente il settore è sostanzialmente stabile in termini di aziende attive.

Il Belgio e altri paesi
Mecca per gli appassionati, il Belgio è stato per molti anni un mondo birrario relativamente fisso e costante, con circa 130 birrifici stabilmente sul mercato e con alcuni di questi in produzione da diversi lustri: la varietà dell’offerta è sempre stata una caratteristica (vincente) della birra locale. Paradossalmente, anche qui i venti di novità della rivoluzione craft mondiale si sono fatti sentire negli ultimi anni e accanto ai tradizionali produttori (che in fondo possiamo denominare artigianali ante litteram, viste le dimensioni, i metodi produttivi e l’impostazione filosofica) sono nate negli ultimi 13 anni tantissime nuove realtà, spesso con impostazioni stilistiche e comunicative che guardano al mondo globalizzato contemporaneo della craft beer. Un’esplosione con tassi di crescita annuali a doppia cifra che ha portato il numero dei birrifici belgi attualmente attivi a 417 unità. Complessivamente il numero di produttori di birra in Europa è oggi di circa 10.000 unità e i dati di crescita citati per Regno Unito e Belgio sono applicabili a molte nazioni, in particolare all’Olanda (da 300 birrifici nel 2014 a quasi 1000), alla Svizzera (da 480 nel 2014 a quasi 1300) e soprattutto alla Francia, (da 660 nel 2014 a circa 2500). Il caso francese meriterebbe un approfondimento per l’enorme portata dei numeri del fenomeno, ma anche in altri paesi si è assistito a crescite rilevanti, come ad esempio per la Croazia (da 6 a oltre 100 produttori in soli 5 anni).

L’Italia
Rispetto ad altri paesi europei, il fenomeno della birra artigianale si è affermato in Italia qualche anno prima di altre nazioni: le motivazioni di tale precocità sono forse legate al nostro approccio culturale al vino e alla gastronomia in generale e probabilmente qualche influenza è da addebitare anche al movimento degli appassionati birrificatori casalinghi, che dal 1995 hanno acquisito piena liceità di fronte alla legge. La crescita è stata inizialmente lenta, ma ricordo che già attorno al 2007, quando si superarono i 200 birrifici artigianali attivi nel nostro paese, molti operatori del settore prevedevano un repentino crollo del numero di produttori perché “il mercato era ormai saturo” e i consumi non potevano di certo sostenere nuovi marchi in circolazione. Invece la crescita è continuata, sia nei consumi complessivi sia, pur lentamente, in quelli del segmento craft: eravamo i fanalini di coda in Europa per consumo pro capite e francamente peggio non si poteva certo fare. A dispetto delle Cassandre che sin dal 2007 prevedevano un ridimensionamento del settore, l’aumento del numero dei produttori è proseguito anche a tassi considerevoli, in particolare tra il 2013 e 2017 con oltre 200 nuovi attori all’anno, includendo nelle statistiche sia birrifici con impianto proprio sia beerfirm.
Il numero di nuove aziende è diminuito negli anni successivi rispetto al citato periodo di boom, ma non si è mai interrotta la tendenza positiva, anche nel biennio 2020-2021 fortemente caratterizzato dalla pandemia. È corretto dire che le pratiche burocratiche e finanziarie necessarie ad aprire un birrificio in Italia necessitano di un periodo di tempo mediamente identificabile in 18-24 mesi, tra l’acquisizione degli spazi produttivi/commerciali, l’acquisto e l’installazione degli impianti, l’ottenimento dei permessi e del codice accisa, le prime cotte, etc. Quindi è lecito pensare che le aperture del 2020-2021 fossero state pensate e impostate prima dello scoppio della pandemia; ciò nonostante, gli imprenditori interessati hanno proseguito, con notevole dose di ottimismo, nel proprio progetto, senza lasciarsi scoraggiare dagli eventi contingenti. Soprattutto se consideriamo che le nuove aperture degli ultimi mesi appaiono qualitativamente diverse da quelle degli anni precedenti: si tratta più che altro di una sensazione di molti operatori di settore, dal momento che non esistono statistiche oggettive a supporto di queste affermazioni; tuttavia sembra che dal punto di vista dimensionale (in termini di capacità di impianto, di cantina e potenziale produttivo) i nuovi birrifici siano in media considerevolmente più “grossi” e strutturati rispetto a quelli di alcuni anni or sono. E ovviamente con investimenti più rilevanti che frequentemente raggiungono cifre a sei zeri. Evidentemente, con un elevato numero di attori già presenti, un progetto imprenditoriale nel settore birra che voglia raggiungere successo e acquisire quote di mercato oggi deve necessariamente prevedere un business plan che includa numeri importanti di investimento e fatturato. Probabilmente la cifra probante relativa alle nuove aperture sarà quella del 2024, ma posso confermare che, pur se non ricomprese nelle grafiche illustrate in queste pagine, anche nel corrente anno continuano ad apparire nuove realtà brassicole in Italia. Parallelamente alle considerazioni effettuate in precedenza riguardo ai numeri dei birrifici del Regno Unito, anche in Italia le chiusure più consistenti di produttori birrari sono avvenute nel biennio 2018-2019, mentre gli avvenimenti pandemici e bellici non sembrano avere influenzato più di tanto la tendenza generale. Dando invece uno sguardo più approfondito al settore, mentre i birrifici (intesi come aziende di semplice o prevalente produzione e distribuzione) hanno mantenuto, pur nelle difficoltà, i propri impianti attivi, una lieve riduzione è avvenuta nel 2022 nel numero complessivo dei beer firm: la tendenza negativa è dovuta, più che a chiusure crescenti nel 2020-2021, a uno stop alle nuove aperture, in particolare nel 2022.
In effetti lockdown pandemico e crescente competizione sul mercato, potrebbero avere limitato gli spazi per questo tipo di attività economica. Capiremo nei prossimi mesi se si tratta di una fase contingente oppure se il beer firm avrà importanza decrescente nel settore.

Prospettive future
Il fatto che da 15 anni vi siano Cassandre che prevedano un crollo del settore birrario craft e che vengano regolarmente smentite dai fatti non significa che si verificherà una crescita perenne del numero dei produttori. In fondo anche l’orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno! È indubbio che la crescita sia sostenibile a due condizioni: che il consumo pro-capite di birra continui ad aumentare e/oppure che i birrifici artigianali rosicchino quote di mercato alla grande industria. La prima, periodo pandemico a parte, si è verificata, ma non è garantita per il futuro, ovviamente, in maniera indefinita. La seconda condizione invece si è riscontrata sino all’incirca al 2016: produzione e consumo di birra artigianale sono aumentati, percentualmente, sino a circa il 3,1% sul dato nazionale e a questa cifra sono rimasti immobili (sempre non considerando il 2020) sino ad oggi. C’entra naturalmente la reazione dell’industria che ha colto le potenzialità degli spazi presenti sul mercato della “nuova birra” raccontata dai birrifici craft. Da un lato le multinazionali hanno portato avanti test di acquisizione di alcuni marchi italiani (proprio del 2016 è l’acquisto di Birra del Borgo da parte di ABInBev, il primo di una breve stagione di acquisti), scelta che invero non ha pagato e che è stata parzialmente rigettata dagli interessati (vedasi il riacquisto da parte degli ex proprietari del brand Hibu da Heineken). Ma soprattutto la scelta vincente, sino ad oggi, è stata quella del lancio dei marchi “crafty”, ossia industriali che si vestono da artigianali: le varie “non filtrate”, “cruda”, “regionali” etc. La fetta di mercato che i birrifici artigianali avrebbero dovuto acquisire grazie al maggiore interesse dei consumatori nei confronti di un prodotto nuovo è rimasta nelle mani della grande industria. Cosa potranno fare i birrifici artigianali? Se desiderano seguire la strada dei loro colleghi statunitensi (che hanno raggiunto il 14% del mercato in dimensione, il 25% in valore) e superare la fatidica quota di mercato del 3,1%, dovranno concentrarsi su tre aspetti principali: riuscire a comunicare al consumatore la vera differenza tra craft e crafty, affrontare il nodo GDO, sino ad ora poco considerato, e implementare i canali distributivi Horeca: qui la comunicazione è elemento importante ma è anche fondamentale fornire anche servizi, parallelamente al prodotto; i publican indipendenti, che acquistano e gestiscono in proprio le attrezzature di spillatura, sono numericamente ancora una piccola minoranza e gli altri pubblici esercizi, come bar, ristoranti e pizzerie, hanno bisogno di essere assistiti sugli aspetti tecnici. I birrifici, almeno quelli più strutturati, dovrebbero iniziare a considerare l’importanza di questo approccio distributivo.

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